mercoledì 22 ottobre 2014

Accadeva l'anno scorso, file salvato sull'hard disk come "Latte di soya", ritrovato adesso e messo in archivio


"Ho scritto di mio padre, in parte.
Poi sono passato davanti al supermercato stamani, dovevo andare in palestra perché ieri sera mi ero dimenticato lì la crema per il tatuaggio.
E insomma, passavo di lì, e c'erano quei dinosauri di cartapesta del Carnevale dell'anno scorso. Ti ricordi? Mi sei venuta in mente.
E mi è venuto in mente che se le cose fossero andate in maniera diversa, sicuramente saremmo passati di lì. Saremmo andati all'Esselunga a prender magari il solito litro di latte fresco e le banane per tua madre.
E avremmo visto i dinosauri. E avremmo riso."
"Ah. E' forte quello che hai scritto. E' veramente forte."
"Vedi perché ho paura a mostrarmi? E' tutto molto forte, e se mi guardaste troppo a fondo finirei per soffocare. Nelle parole c'è sempre una piccola parte di me. Non posso darmi a tutti. In quante persone sarei frammentato altrimenti?"
Non so nemmeno perché ti ho scritto quello che ho pensato questa mattina, forse perché comunque ti vorrei partecipe della mia vita, vorrei che ricoprissi ancora un qualche ruolo, anche se tutto non potrà più essere come prima.

Non potrà più esserlo, perché niente è più come prima. Troppe cose sono successe. Troppe parole sono state dette. E non dovevo nemmeno scrivertelo quello che ho pensato, non credevo che ti potesse fare male, ti chiedo scusa.
Ti ho permesso di affacciarti al mio abisso. Ti sei spaventata. Va bene così, devi starne alla larga.
Devono starne tutti alla larga.

"Per te non è stato forte scriverlo? E' qui che non capisco come fai ad essere diventato insensibile a tutto."

Ancora con questa storia dell'insensibilità.
Tu sapessi. Tu sapessi quanto sono diventato se possibile ancora più sensibile di prima.
Come ho detto a lei, è come se avessi lo zoom sul mondo. Tutti i particolari diventano vivi, tutte le forme, tutti i volumi. Potrei stare delle ore ad osservare un filo d'erba o il profilo dei cavi elettrici che si aggrovigliano tra di loro! Ma non vedi tutto quello che hai attorno?
Com'è tutto così strano, così... così. Guardati le mani e sogna. Perditi tra i meandri delle infinite pieghe!
Per questo voi non vivete mai. Per questo dite che sono io l'insensibile.
Io ci sono perso tra i labirinti delle forme, per questo non mi vedete più. Ma è solo perché ci sono dentro.
Sono dentro al mondo.
Sono parte del tutto.

"Fare senza aglio che alla Dè non piace."
Ecco il mio nuovo segnalibro.
"Dè" sta per Debora.
"Debora" sta per mia sorella.
Era un biglietto che mia madre aveva lasciato a mio padre. Per non fargli mettere l'aglio nella bruschetta con i pomodorini.
Ho annusato l'aria dopo averlo letto, c'era puzza d'aglio.
Come al solito lui se n'era fregato e aveva pensato che con l'aglio sarebbero state più buone. Quindi perché non mettercelo?
-E' morto Gianfranco, l'idraulico, quello che veniva sempre qui. Te lo ricordi?- mi aveva detto proprio mio padre, appena entrato in cucina.
-Ah, cazzo.- la mia risposta, mentre mi fingevo dispiaciuto.
Era appena caduto tra di noi quel velo di circostanza che solo la morte può dare.
Chissà perchè poi.
Chissà perché io e lui riuscivamo ad avere un tono normale solo quando parlavamo di morte.
La verità è che la morte lo terrorizzava.
Lui.
Un uomo di circa 60 anni (non ho voglia di contare) che ha rischiato di tirare le cuoia per una cirrosi epatica da urlo.
Lui.
Lui che si sentiva potente su tutto e tutti, che DOVEVA essere potente.
DOVEVA avere il controllo di tutto, lui.
Lui, questo uomo che si rendeva improvvisamente conto di essere ormai con un piede e mezzo nella fossa.
E dall'altra parte c'ero io.
Quell'anno sarei andato per i venti.
Ero giovane, ero in forma, se avessi voluto lo avrei potuto buttare giù con un calcio forte e ben assestato; sapevo come fare. Ma l'idea non mi aveva mai sfiorato la mente.
Strano. Con tutto quello che ci aveva fatto...
E lui si ritrovava sempre, puntualmente, così, quando parlavamo della morte.
Si rendeva improvvisamente conto che da quanto è grasso non poteva nemmeno allacciarsi le cinture quando guidava (Per questo, forse, non scala mai la quarta?).
Mi stavo convincendo sempre di più che quando mi guardava vedeva il se stesso di tanti anni prima. Di quando faceva il paracadutista nella folgore e i muscoli guizzavano sotto la mimetica.
Mi stavo convincendo sempre di più che più passava il tempo, più la barba cresceva e la voce si faceva roca e profonda, e più lui, quando mi guardava, vedeva se stesso.
Vedeva se stesso migliorato di centomila volte.
E la cosa lo spaventava, lo rendeva esterrefatto.
Perché DEVE ESSERE LUI il migliore.
Era più o meno da un'ora che stavo leggendo "Donne" di Bukowski, il libro del quale la sera prima (o "la mattina presto", usando le parole di Laura) le avevo letto qualche parte. A lei.
Era cominciato tutto da lì.
Alla fine Laura non era riuscita a fare la doccia, o meglio, l'aveva fatta solo per metà.
L'acqua calda non arrivava più e lei era rimasta intirizzita a tremare per il freddo.
Io mi ero messo a leggere mentre la aspettavo, convinto che stesse solo impiegando un tempo gargantuesco per lavarsi.
Ad un certo punto aveva vibrato il cellulare.
Un SMS.
"Dimmi che mi puoi chiamare, ti prego".
Era mezzanotte e cinquantotto.
L'avevo chiamata.
L'avevo chiamata e mi aveva spiegato la storia della doccia.
Mi aveva detto che "suo fratello grande" (sempre così lo chiamava) le aveva chiesto di parlare. Laura non aveva rifiutato, era andata da lui e aveva parlato con lui. Per sentire poi sempre i soliti discorsi triti e ritriti.
"Devi essere forte tu per tua madre, non lo vedi come sta? Ci spaventa."
Provai a mantenere un certo autocontrollo mentre mi spiegava tutto per telefono, mentre la sua voce stanca e sempre un poco spaventata mi accarezzava le orecchie.
Tempo prima glielo avevo detto, che la sua voce era come una carezza. Sembrava sempre sul punto di non avere il respiro. E così ti accarezzava le orecchie.
-Mi sembra d'essere tornato ai tempi di Galileo con l'Inquisizione. Chi glielo dice che è la Terra a girare attorno al Sole e non il contrario?- avevo sbottato.
Lei aveva riso.
Mi ero sentito per un secondo importante.
Poi avevo cominciato a raccontarle del libro che stavo leggendo, aggiungendo che non era il suo genere.
-Però ci sono dei pezzi molto belli.- avevo aggiunto.
-Me li leggi?- mi aveva risposto lei in un soffio.
Così avevo cominciato. Mi piaceva leggere ad alta voce, anche se non l'avevo mai fatto con nessuno. Solamente a scuola, anni fa, quando chiedevano se qualcuno volesse leggere speravo sempre che chiamassero me, anche se mai e poi mai mi sarei fatto avanti. Mi vergognavo. Però pensavo che se fosse stato qualcun altro a chiedermelo, allora avrei avuto il pretesto giusto.
Cominciato.
Finito.
-Ancora.- la sua carezza alle orecchie.
Un altro..
La voce mi si soffermava sulle parole che avrei voluto dirle, ma che sempre mi si fermavano in gola. Leggere quelle di qualcun altro era molto più semplice, era come se le facessi mie solo per il fatto che le dicevo con la mia voce. Ma avevo sempre la scusa di dire "eh no, ma non sono mie, non le ho scritte io."
-Ne hai ancora?- mi chiese.
Continuai.
E di nuovo finii.
-Ancora.-

Mercoledì sera. O forse era martedì? Boh, non so più tenere conto dei giorni. Una volta andare a scuola aiutava anche in questo. Ora so solo quand'è che è lunedì, quando è martedì e quando è venerdì. Sono i giorni in cui devo svegliarmi alle 6 di mattina per andare al corso.
Insomma, facciamo che fosse mercoledì sera.
Mercoledì sera sono andato in quel locale, il Pool Jazz.
Serena cantava nel coro della sua band che fa cover di famosi pezzi rock. Sono bravi. Abbastanza. Accettabili per esser giovani.
Il cantante però, ogni volta, mi fa morir dal ridere. Si crede figo. E' abbastanza simpatico, non ci ho mai parlato veramente a dirla tutta. Ma è esilarante quando si mette gli occhiali da sole alle 11 di sera per cantare. Sul serio, è esilarante. Mi verrebbe da ridergli in faccia. Una volta l'ho fatto.
Se si mette gli occhiali salva la vista a molta gente, non è proprio tutta questa gran bellezza. Con gli occhiali da sole sembra quasi figo, però.

E quindi ero lì. Ho chiesto a Ciulia se le facesse piacere che l'accompagnassi io, non mi andava di arrivare lì da solo come il lupo che ero. Mi andava di fingere un po' di essere qualcosa di sociale. E Ciulia era l'unica che fosse un po' lupo come me. Era l'unica persona di cui mi fidassi in 'sta merda di città.
Mi ha detto che andava bene.
Al Pool ci sarebbero stati, oltre a Serena, anche Giulia e il ragazzo che ha conosciuto da poco, Luca, e di certo non volevo far la figura dello sfigato asociale che si sceglie la solitudine.
Anche se so perfettamente che sono così, compresso in questa unica frase.
Sono uno sfigato asociale che si sceglie la solitudine.
Tsk.

L'indignazione verso le prese per il culo che mi stava facendo Giulia in quei giorni stavano scemando. Tanto per citarne due, mi aveva proposto di vederci domenica scorsa insieme ai nostri amici storici. Ok, avevo detto io, almeno con la scusa della pennina USB e alcune cose che dovevo ridarle, speravo di poter parlare un po'.
Sabato le chiedo di farmi sapere gli orari, e mi sento dire che "no, domenica non posso, esco con Luca".
Ok, dico io. Nel frattempo ci eravamo messi d'accordo per vederci sempre tutti assieme il lunedì.
Ok, ridico io.
Ci sarebbero stati anche Stefano, Serena e Ciulia. Tanto meglio! Era così tanto tempo che non li vedevo. Sarei voluto uscire quasi solo esclusivamente per vedere loro.
Alle sei della domenica mando un sms a Giulia per sapere gli orari del giorno dopo.
"No scusa ma esco con Stefano, Serena e Ciulia e c'è pure Luca. Scusa ma non mi va ancora di farvi conoscere, mi sento in imbarazzo."
E se permetti ora mi girano le palle.
Dico ok lo stesso. Ma mi girano le scatole. Stefano scende dalla sua cazzo di città sui monti una volta ogni morte di Papa, e Giulia mi dice che non posso esser con loro?
"Sei un po' freddo" mi scrive per messaggio lunedì mattina.
Le dico chiaro e tondo che mi ha fatto girar le palle.
Lei mi dice che se voglio ci possiamo vedere la sera.
Prima le dico di no. Non le voglio dar soddisfazione.
Poi mi dice che Ste sarebbe rimasto fino a tardi, allora acconsento.
Ma nel pomeriggio mi manda all'aria pure tutta la serata.

E quindi si torna a mercoledì sera. Al Pool Jazz. Arrivo lì con Ciulia. Giulia mi saluta, si è tagliata un po' i capelli, non me la ricordavo così bella. Sono tutti seduti ad un lungo tavolo in legno. Serena deve ancora arrivare, Luca è seduto di fronte a Giulia.
Mi sento a disagio. Mi sento di troppo. Io e Ciulia, lo vedo che anche per lei è così. Ci guardiamo come per dire "Ma che siamo venuti a fare?"
Prendo la scatola di un Forza 4, tra i giochi da tavolo che il locale mette a disposizione, e comincio a giocarci con lei.
Vinco una cosa come 10 partite di fila, una volta mi batte lei, poi riprendo con le mie vittorie. Si stufa.
"Non ti diverti più eh?" ridacchio.
Allora le propongo di fare a cazzo. Prendiamo i tondini rossi e quelli gialli del gioco e li mettiamo a cavolo nella griglia, l'immagine che si forma sembra quella di una cattedrale gotica dal contorno rosso e l'interno giallo.
Ogni tanto alzo gli occhi verso Luca, mi piace come tipo.

Stavo prendendo io per il culo il mondo o era il mondo a prendere per il culo me? Non sapevo rispondere.
Mancavano dodici minuti a mezzanotte. Era giugno e pareva d'essere a inizio ottobre. Stava per nascere mia nipote, stavo perdendo Laura e avevo già perso Giulia, mio padre era il peggior giudice di se stesso e mia madre andava avanti a grappa e limoncello e venditrici porta a porta di elettrodomestici.
Volevo solo piangere. Volevo che qualcuno mi circondasse le spalle e mi permettesse di piangere in santa pace. Ciulia si era fatta una canna, prima, lei e Martina che continuavano a dire cosa avrei dovuto fare con Giulia. "State prendendo tutti per il culo."
Quella fu una delle sere in cui mi resi conto di essere veramente un vigliacco. Avrei voluto morire, ma non avevo le palle per farlo.
E non perché pensassi a come sarebbero stati gli altri senza di me. Ma perché non sapevo a cosa sarei andato in contro.
E se fosse stato peggio?
Poteva Sempre andare peggio, quello ormai l'avevo appurato in venti anni di esperienza sul campo.
Ma soprattutto non volevo che mi venisse messa addosso l'etichetta di quello che non ce la faceva più.
Io sono forte.
"Metti da parte quel cazzo di orgoglio." Laura, in una delle ultime mail.
Quello che non capiva era che non si trattava di orgoglio. Ma di una fottuta paura nei confronti delle persone.

Insomma, mia sorella era appena stata portata all'ospedale. E io non avevo la minima intenzione di andarci. Ancora paura. Paura di vedere la gente. Paura di vedere una persona che un attimo prima respirava dentro l'acqua come i pesci e un attimo dopo strillava nel bel mezzo di una sala asettica.
Paura di mostrarmi. Paura di far vedere i miei pensieri.
Avrei voluto piangere. Ma poi sicuramente avrei sentito le solite frasi canzonatorie da parte di mia madre e forse di mia sorella stessa. "Frignone"
Non si poteva essere felici per qualcosa di bello. Non si poteva mostrare dolcezza in casa mia. Guai. Piuttosto butta via ciò che hai nel piatto.
Guai a farsi vedere emotivi, in casa mia.
Quella sera, essere felici era qualcosa che assomigliava molto alla leggenda dell'alligatore nelle fogne di New York.
Mia sorella era appena stata portata all'ospedale. E io me ne restavo davanti al pc, a scrivere, con la casella gmail aperta, e con la fottuta speranza che Laura mi scrivesse. Non importava cosa. Avevo solo bisogno che lei mi scrivesse.
Non avrebbe scritto, avrei aspettato un'ora, avrei spento il pc, spento il modem, salito le scale; mi sarei cambiato, lavato i denti e mi sarei messo nel letto, con il telefono accanto.
Odiavo questo mio essere dipendente da chi anche solo una volta aveva scambiato con me parole dolci.
Quella sera, mi odiavo.
Perché c'era questa moda di essere acidi con chi ci tratta bene, e io no, non l'avevo ancora capito.


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