"Ho scritto di mio padre, in parte.
Poi sono
passato davanti al supermercato stamani, dovevo andare in palestra
perché ieri sera mi ero dimenticato lì la crema per il tatuaggio.
E
insomma, passavo di lì, e c'erano quei dinosauri di cartapesta del
Carnevale dell'anno scorso. Ti ricordi? Mi sei venuta in mente.
E
mi è venuto in mente che se le cose fossero andate in maniera
diversa, sicuramente saremmo passati di lì. Saremmo andati
all'Esselunga a prender magari il solito litro di latte fresco e le
banane per tua madre.
E avremmo visto i dinosauri. E avremmo
riso."
"Ah. E' forte quello che hai scritto. E'
veramente forte."
"Vedi perché ho paura a
mostrarmi? E' tutto molto forte, e se mi guardaste troppo a fondo
finirei per soffocare. Nelle parole c'è sempre una piccola parte di
me. Non posso darmi a tutti. In quante persone sarei frammentato
altrimenti?"
Non so nemmeno perché ti ho scritto quello che ho
pensato questa mattina, forse perché comunque ti vorrei partecipe
della mia vita, vorrei che ricoprissi ancora un qualche ruolo, anche
se tutto non potrà più essere come prima.
Non potrà più
esserlo, perché niente è più come prima. Troppe cose sono
successe. Troppe parole sono state dette. E non dovevo nemmeno
scrivertelo quello che ho pensato, non credevo che ti potesse fare
male, ti chiedo scusa.
Ti ho permesso di affacciarti al mio
abisso. Ti sei spaventata. Va bene così, devi starne alla
larga.
Devono starne tutti alla larga.
"Per te non
è stato forte scriverlo? E' qui che non capisco come fai ad essere
diventato insensibile a tutto."
Ancora con questa
storia dell'insensibilità.
Tu sapessi. Tu sapessi quanto sono
diventato se possibile ancora più sensibile di prima.
Come
ho detto a lei, è come se avessi lo zoom sul mondo. Tutti i
particolari diventano vivi, tutte le forme, tutti i volumi. Potrei
stare delle ore ad osservare un filo d'erba o il profilo dei cavi
elettrici che si aggrovigliano tra di loro! Ma non vedi tutto quello
che hai attorno?
Com'è tutto così strano, così... così.
Guardati le mani e sogna. Perditi tra i meandri delle infinite
pieghe!
Per questo voi non vivete mai. Per questo dite che sono io
l'insensibile.
Io ci sono perso tra i labirinti delle forme, per
questo non mi vedete più. Ma è solo perché ci sono dentro.
Sono
dentro al mondo.
Sono parte del tutto.
"Fare senza aglio che alla Dè non piace."
Ecco il mio
nuovo segnalibro.
"Dè" sta per
Debora.
"Debora" sta per
mia sorella.
Era un biglietto che mia
madre aveva lasciato a mio padre. Per non fargli mettere l'aglio
nella bruschetta con i pomodorini.
Ho annusato l'aria dopo averlo
letto, c'era puzza d'aglio.
Come al solito lui se n'era fregato e
aveva pensato che con l'aglio sarebbero state più buone. Quindi
perché non mettercelo?
-E' morto Gianfranco,
l'idraulico, quello che veniva sempre qui. Te lo ricordi?- mi aveva
detto proprio mio padre, appena entrato in cucina.
-Ah, cazzo.- la mia
risposta, mentre mi fingevo dispiaciuto.
Era appena caduto tra di
noi quel velo di circostanza che solo la morte può dare.
Chissà perchè
poi.
Chissà perché io e lui riuscivamo ad avere un tono normale
solo quando parlavamo di morte.
La verità è che la morte
lo terrorizzava.
Lui.
Un uomo di circa
60 anni (non ho voglia di contare) che ha rischiato di tirare le
cuoia per una cirrosi epatica da urlo.
Lui.
Lui che si sentiva potente
su tutto e tutti, che DOVEVA essere potente.
DOVEVA avere il
controllo di tutto, lui.
Lui, questo uomo che si
rendeva improvvisamente conto di essere ormai con un piede e mezzo
nella fossa.
E dall'altra parte c'ero
io.
Quell'anno sarei andato
per i venti.
Ero giovane, ero in forma,
se avessi voluto lo avrei potuto buttare giù con un calcio forte e
ben assestato; sapevo come fare. Ma l'idea non mi aveva mai sfiorato
la mente.
Strano. Con tutto quello che ci aveva fatto...
E lui si ritrovava sempre,
puntualmente, così, quando parlavamo della morte.
Si rendeva improvvisamente
conto che da quanto è grasso non poteva nemmeno allacciarsi le
cinture quando guidava (Per questo, forse, non scala mai la quarta?).
Mi stavo convincendo
sempre di più che quando mi guardava vedeva il se stesso di tanti
anni prima. Di quando faceva il paracadutista nella folgore e i
muscoli guizzavano sotto la mimetica.
Mi stavo convincendo
sempre di più che più passava il tempo, più la barba cresceva e la
voce si faceva roca e profonda, e più lui, quando mi guardava,
vedeva se stesso.
Vedeva se stesso
migliorato di centomila volte.
E la cosa lo spaventava, lo rendeva
esterrefatto.
Perché DEVE ESSERE LUI
il migliore.
Era più o meno da un'ora
che stavo leggendo "Donne" di Bukowski, il libro del quale
la sera prima (o "la mattina presto", usando le parole di
Laura) le avevo letto qualche parte. A lei.
Era cominciato tutto
da lì.
Alla fine Laura non era riuscita a fare la doccia, o
meglio, l'aveva fatta solo per metà.
L'acqua calda non arrivava
più e lei era rimasta intirizzita a tremare per il freddo.
Io mi ero messo a leggere
mentre la aspettavo, convinto che stesse solo impiegando un tempo
gargantuesco per lavarsi.
Ad un certo punto aveva
vibrato il cellulare.
Un SMS.
"Dimmi che mi puoi
chiamare, ti prego".
Era mezzanotte e cinquantotto.
L'avevo
chiamata.
L'avevo chiamata e mi aveva spiegato la storia della
doccia.
Mi aveva detto che "suo fratello grande" (sempre
così lo chiamava) le aveva chiesto di parlare. Laura non aveva
rifiutato, era andata da lui e aveva parlato con lui. Per sentire poi
sempre i soliti discorsi triti e ritriti.
"Devi essere forte tu
per tua madre, non lo vedi come sta? Ci spaventa."
Provai a mantenere un
certo autocontrollo mentre mi spiegava tutto per telefono, mentre la
sua voce stanca e sempre un poco spaventata mi accarezzava le
orecchie.
Tempo prima glielo avevo
detto, che la sua voce era come una carezza. Sembrava sempre sul
punto di non avere il respiro. E così ti accarezzava le orecchie.
-Mi sembra d'essere
tornato ai tempi di Galileo con l'Inquisizione. Chi glielo dice che è
la Terra a girare attorno al Sole e non il contrario?- avevo
sbottato.
Lei aveva riso.
Mi ero sentito per un
secondo importante.
Poi avevo cominciato a
raccontarle del libro che stavo leggendo, aggiungendo che non era il
suo genere.
-Però ci sono dei pezzi
molto belli.- avevo aggiunto.
-Me li leggi?- mi aveva
risposto lei in un soffio.
Così avevo cominciato. Mi
piaceva leggere ad alta voce, anche se non l'avevo mai fatto con
nessuno. Solamente a scuola, anni fa, quando chiedevano se qualcuno
volesse leggere speravo sempre che chiamassero me, anche se mai e poi
mai mi sarei fatto avanti. Mi vergognavo. Però pensavo che se fosse
stato qualcun altro a chiedermelo, allora avrei avuto il pretesto
giusto.
Cominciato.
Finito.
-Ancora.- la sua carezza
alle orecchie.
Un altro..
La voce mi si soffermava
sulle parole che avrei voluto dirle, ma che sempre mi si fermavano in
gola. Leggere quelle di qualcun altro era molto più semplice, era
come se le facessi mie solo per il fatto che le dicevo con la mia
voce. Ma avevo sempre la scusa di dire "eh no, ma non sono mie,
non le ho scritte io."
-Ne hai ancora?- mi chiese.
Continuai.
E di nuovo finii.
-Ancora.-
Mercoledì sera. O forse era martedì? Boh, non so più tenere conto
dei giorni. Una volta andare a scuola aiutava anche in questo. Ora so
solo quand'è che è lunedì, quando è martedì e quando è venerdì.
Sono i giorni in cui devo svegliarmi alle 6 di mattina per andare al
corso.
Insomma, facciamo che fosse mercoledì sera.
Mercoledì
sera sono andato in quel locale, il Pool Jazz.
Serena cantava nel
coro della sua band che fa cover di famosi pezzi rock. Sono bravi.
Abbastanza. Accettabili per esser giovani.
Il cantante però, ogni
volta, mi fa morir dal ridere. Si crede figo. E' abbastanza
simpatico, non ci ho mai parlato veramente a dirla tutta. Ma è
esilarante quando si mette gli occhiali da sole alle 11 di sera per
cantare. Sul serio, è esilarante. Mi verrebbe da ridergli in faccia.
Una volta l'ho fatto.
Se si mette gli occhiali salva la vista a
molta gente, non è proprio tutta questa gran bellezza. Con gli
occhiali da sole sembra quasi figo, però.
E quindi ero lì.
Ho chiesto a Ciulia se le facesse piacere che l'accompagnassi io, non
mi andava di arrivare lì da solo come il lupo che ero. Mi andava di
fingere un po' di essere qualcosa di sociale. E Ciulia era l'unica
che fosse un po' lupo come me. Era l'unica persona di cui mi fidassi
in 'sta merda di città.
Mi ha detto che andava bene.
Al Pool
ci sarebbero stati, oltre a Serena, anche Giulia e il ragazzo che ha
conosciuto da poco, Luca, e di certo non volevo far la figura dello
sfigato asociale che si sceglie la solitudine.
Anche se so
perfettamente che sono così, compresso in questa unica frase.
Sono
uno sfigato asociale che si sceglie la
solitudine.
Tsk.
L'indignazione verso le prese per il culo
che mi stava facendo Giulia in quei giorni stavano scemando. Tanto
per citarne due, mi aveva proposto di vederci domenica scorsa insieme
ai nostri amici storici. Ok, avevo detto io, almeno con la scusa
della pennina USB e alcune cose che dovevo ridarle, speravo di poter
parlare un po'.
Sabato le chiedo di farmi sapere gli orari, e mi
sento dire che "no, domenica non posso, esco con Luca".
Ok,
dico io. Nel frattempo ci eravamo messi d'accordo per vederci sempre
tutti assieme il lunedì.
Ok, ridico io.
Ci sarebbero stati
anche Stefano, Serena e Ciulia. Tanto meglio! Era così tanto tempo
che non li vedevo. Sarei voluto uscire quasi solo esclusivamente per
vedere loro.
Alle sei della domenica mando un sms a Giulia per
sapere gli orari del giorno dopo.
"No scusa ma esco con
Stefano, Serena e Ciulia e c'è pure Luca. Scusa ma non mi va ancora
di farvi conoscere, mi sento in imbarazzo."
E se permetti ora
mi girano le palle.
Dico ok lo stesso. Ma mi girano le scatole.
Stefano scende dalla sua cazzo di città sui monti una volta ogni
morte di Papa, e Giulia mi dice che non posso esser con loro?
"Sei
un po' freddo" mi scrive per messaggio lunedì mattina.
Le
dico chiaro e tondo che mi ha fatto girar le palle.
Lei mi dice
che se voglio ci possiamo vedere la sera.
Prima le dico di no. Non
le voglio dar soddisfazione.
Poi mi dice che Ste sarebbe rimasto
fino a tardi, allora acconsento.
Ma nel pomeriggio mi manda
all'aria pure tutta la serata.
E quindi si torna a mercoledì
sera. Al Pool Jazz. Arrivo lì con Ciulia. Giulia mi saluta, si è
tagliata un po' i capelli, non me la ricordavo così bella. Sono
tutti seduti ad un lungo tavolo in legno. Serena deve ancora
arrivare, Luca è seduto di fronte a Giulia.
Mi sento a disagio.
Mi sento di troppo. Io e Ciulia, lo vedo che anche per lei è così.
Ci guardiamo come per dire "Ma che siamo venuti a fare?"
Prendo
la scatola di un Forza 4, tra i giochi da tavolo che il locale mette
a disposizione, e comincio a giocarci con lei.
Vinco una cosa come
10 partite di fila, una volta mi batte lei, poi riprendo con le mie
vittorie. Si stufa.
"Non ti diverti più eh?"
ridacchio.
Allora le propongo di fare a cazzo. Prendiamo i tondini
rossi e quelli gialli del gioco e li mettiamo a cavolo nella griglia,
l'immagine che si forma sembra quella di una cattedrale gotica dal
contorno rosso e l'interno giallo.
Ogni tanto alzo gli occhi verso
Luca, mi piace come tipo.
Stavo prendendo io per il culo il mondo
o era il mondo a prendere per il culo me? Non sapevo
rispondere.
Mancavano dodici minuti a mezzanotte. Era giugno e
pareva d'essere a inizio ottobre. Stava per nascere mia nipote, stavo
perdendo Laura e avevo già perso Giulia, mio padre era il peggior
giudice di se stesso e mia madre andava avanti a grappa e limoncello
e venditrici porta a porta di elettrodomestici.
Volevo solo
piangere. Volevo che qualcuno mi circondasse le spalle e mi
permettesse di piangere in santa pace. Ciulia si era fatta una canna,
prima, lei e Martina che continuavano a dire cosa avrei dovuto fare
con Giulia. "State prendendo tutti per il culo."
Quella
fu una delle sere in cui mi resi conto di essere veramente un
vigliacco. Avrei voluto morire, ma non avevo le palle per farlo.
E
non perché pensassi a come sarebbero stati gli altri senza di me. Ma
perché non sapevo a cosa sarei andato in contro.
E se fosse stato
peggio?
Poteva Sempre andare peggio, quello ormai l'avevo appurato
in venti anni di esperienza sul campo.
Ma soprattutto non volevo
che mi venisse messa addosso l'etichetta di quello che non ce la
faceva più.
Io sono forte.
"Metti da parte quel cazzo di
orgoglio." Laura, in una delle ultime mail.
Quello che non
capiva era che non si trattava di orgoglio. Ma di una fottuta paura
nei confronti delle persone.
Insomma, mia sorella era appena
stata portata all'ospedale. E io non avevo la minima intenzione di
andarci. Ancora paura. Paura di vedere la gente. Paura di vedere una
persona che un attimo prima respirava dentro l'acqua come i pesci e
un attimo dopo strillava nel bel mezzo di una sala asettica.
Paura
di mostrarmi. Paura di far vedere i miei pensieri.
Avrei voluto
piangere. Ma poi sicuramente avrei sentito le solite frasi
canzonatorie da parte di mia madre e forse di mia sorella stessa.
"Frignone"
Non si poteva essere felici per qualcosa di
bello. Non si poteva mostrare dolcezza in casa mia. Guai. Piuttosto
butta via ciò che hai nel piatto.
Guai a farsi vedere emotivi, in
casa mia.
Quella sera, essere felici era qualcosa che assomigliava
molto alla leggenda dell'alligatore nelle fogne di New York.
Mia
sorella era appena stata portata all'ospedale. E io me ne restavo
davanti al pc, a scrivere, con la casella gmail aperta, e con la
fottuta speranza che Laura mi scrivesse. Non importava cosa. Avevo
solo bisogno che lei mi scrivesse.
Non avrebbe scritto, avrei
aspettato un'ora, avrei spento il pc, spento il modem, salito le
scale; mi sarei cambiato, lavato i denti e mi sarei messo nel letto,
con il telefono accanto.
Odiavo questo mio essere dipendente da
chi anche solo una volta aveva scambiato con me parole dolci.
Quella
sera, mi odiavo.
Perché c'era questa moda di essere acidi con chi
ci tratta bene, e io no, non l'avevo ancora capito.